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La Cappella Sansevero a Napoli svela il gioco delle generazioni

Cappella Sansevero

…osserva con occhi attenti e con venerazione le urne degli eroi onuste di gloria e contempla con meraviglia il pregevole ossequio all’opera divina e i sepolcri dei defunti, e quando avrai reso gli onori dovuti profondamente rifletti e allontanati.

(Iscrizione sulla porta laterale della Cappella Sansevero)

Napoli è una città di meraviglie e misteri, è cosa nota. Tuttavia, non temiamo di essere ridondanti nel ripeterlo ancora. Perché ogni angolo ed ogni istante di quest’immensa distesa di vicoli e case affacciate sul Golfo sanno regalare un mondo nuovo, ed un nuovo sguardo. Non basterebbero anni per conoscerla, e forse lei stessa non vuole essere conosciuta da chi non ne è figlio. Preferisce scoprirsi in gesti fugaci, ed ammaliare con piccoli lembi di pelle mostrati all’improvviso al viaggiatore che la visita.

Piazza san Domenico

Può capitare al viaggiatore che non parla il suo dialetto, di perdersi tra strade strettissime, e camminare senza una meta precisa. Potreste allora raggiungere la piazza di San Domenico Maggiore. Qui sarete abbracciati dallo scirocco caldo che plana come una rondine da via Mezzocannone, sferzando sull’obelisco e la facciata della chiesa. Tra il vento che sussurra gli odori della città, sentirete forse un lamento di donna. È il fantasma di una sposa venduta, un velo bianco e triste che porta il nome di Maria d’Avalos. Uccisa dal marito, il Principe Carlo Gesualdo da Venosa, dopo aver cercato conforto per un brutale matrimonio di convenienza tra le braccia del duca di Carafa.

Un breve tratto di penna nella storia umana, un aneddoto da bibliotecari, naufragato nella mattanza di una donna e nell’esposizione del cadavere in questa piazza. Piazza da cui, si dice, la disperata non abbia più voluto allontanarsi, nonostante i secoli.

Statua del dio Nilo

Rivolgete un pensiero alla povera Maria e scivolate in piazzetta Nilo. Attraversatela nella sua intera lunghezza, sorridendo ai mille idiomi che vi passano accanto, e raggiungete l’incrocio con l’omonima via. In questo piccolo spiazzo guardate la statua che avete davanti, e sognate uomini andati per mare ed epoche che sprofondano le une sulle altre.

Di fronte a voi è una figura di marmo bianco, su un piedistallo di pietra grigia, quella pietra popolare che ricopre con umiltà ogni strada di Napoli. È la statua del dio Nilo, testimonianza di un mondo dimenticato, e di dimenticate genti. Un uomo anziano e dall’aspetto sereno rappresenta il fiume vivificatore delle terre d’Egitto. Ai suoi piedi, una sfinge ricorda al viaggiatore che passa per queste strade la natura divina di quella lingua d’acqua, capace di tagliare il deserto e donare le basi solide su cui per millenni intere civiltà hanno costruito i propri templi, protesi come colli di cigno verso l’infinito.

La statua del dio porta riflessi nei suoi occhi pieni duemila anni di passato, e risale ad un’epoca segreta in cui a Napoli viveva una nutrita comunità di alessandrini. Uomini arrivati da una delle più sofisticate città del Mediterraneo, impregnati di quella cultura tolemaica riflesso dell’età dell’oro della filosofia greca. Uomini di cultura mistica, fino agli estremi della magia, approdati nella Neapolis dell’impero di Roma, e qui accolti come figli dell’aquila che volava all’ora sui sette colli. Furono loro a commissionare questa statua, poi dispersa e ritrovata, posizionata nell’attuale sede alla fine del XVII secolo, negli stessi anni in cui, un centinaio di metri più ad ovest, una morale priva di perdono faceva macelleria e scempio del corpo di Maria d’Avalos.

La cappella Sansevero

Date un ultimo sguardo alla statua del dio Nilo e, pensando forse al gioco delle generazioni grazie a cui una città sorge, imboccate via Nilo fino ad incrociare, sulla vostra sinistra, via Francesco de Sanctis. Percorrete la stradina, circondati da palazzi riflessi l’uno sull’altro, fino a raggiungere un portone grave, un portone da chiesa. Sul suo vertice le bande oblique dello stemma della famiglia Sangro. Entrate con rispetto nella Cappella Sansevero, dove riposano i principi di Sangro.

È inutile descrivere con la grammatica dello sguardo la Cappella Sansevero, perché non sono il colore e la luce a definirne la materia. Non sono le forme precise o le figure aggraziate a giustificarne l’esistenza o ad averne motivato la creazione. Certo, è un luogo fisico e come tale abitato di colori e luci, di forme e figure. Ma non sono questi elementi, per quanto sviluppati fino al virtuosismo, a donare l’unicità che riveste la Cappella Sansevero. Forse un genius loci, un edificio che non è solo stato generato come cosa viva, ma è riuscito ad essere centro di raccolta di idee e leggi, figlie di diversi campi della percezione e dell’esperienza di infinite comunità. Immagine plastica della totalità prodotta da un territorio, a volte forse amaro, ma con radici profondamente piantate nello spettro delle creatività umane.

Fissità trasversale di epoche che si incrociano, la Cappella Sansevero inizia ad essere costruita alla fine del 1500. Sarà completata nella seconda metà del 1700, dopo più di un secolo e mezzo, ad opera di un uomo il cui nome, in mezzo a questi vicoli, la notte si pronuncia ancora a bassa voce, il principe Raimondo di Sangro. Un uomo attorno a cui sono sbocciate grappoli di leggende. Ritenuto la personificazione del male o il più casto riflesso della pietà cristiana. Descritto come massone, alchimista, forse mago, da qualcuno assassino. Cinque secoli dopo il regno d’orato di Federico II di Svevia, si diceva nella Napoli del XVIII secolo, queste terre vedevano nuovamente gemmare uno stupor mundi.

Era un secolo particolare, il 1700. La cristianità istituzionalizzata e moderna del rinascimento perdeva ormai lo slancio all’azione e l’Europa cercava nuovi ingredienti per vivificare il sincretismo su cui edificare la propria identità. In terra di Francia, i Philosophes scoprivano nuove leggi di natura e nuove scienze per spiegare il mondo. Nell’estremo sud del continente le idee della Sorbona arrivano ovattate, filtrate dalla Roma papale. Il principe Raimondo di Sangro, esponente di una tra le più illustri famiglie di Napoli, si scopre affascinato figlio dei propri tempi. Si getta con foga su ogni nuova scoperta, spende a piene mani per avere nei suoi palazzi scienziati ed artisti. Rivolge quindi il suo sguardo sulla cappella di famiglia, e decide di farne il suo tempio. Un tempio che non sia semplicemente di sua proprietà, ma sua immagine, sua eredità al mondo.

Qui statue, macchine anatomiche, simbologia massonica. Tema ricorrente nelle opere e nell’impianto, quello della resurrezione. Un tema che è figlio di una cultura ancora incerta del proprio momento. Un’identità caratterizzata da epoche che si danno il cambio, e che vede con disarmante lucidità un mondo ormai vecchio cedere il passo al nuovo. E alla tempesta rigeneratrice che si intuisce arrivare dal prossimo orizzonte del secolo. Un mondo vecchio del quale non si vogliono però abbattere gli idoli e le colonne, ma sintetizzarle, fonderle nei nuovi miti che dal nido francese iniziano ad imparare l’arte del volo.

 Si guardino le statue del Cristo velato o del Disinganno, in questa sala, si osservino la Gloria del Paradiso affrescato sulla volta e le macchine anatomiche fatte di ossa e vene umane. Concentratevi infine sulla tomba dello stesso principe Raimondo e sul suo ritratto ivi appostovi, l’unico a raffigurarlo che ci sia pervenuto.  Osserverete il volto di un uomo che dell’osservazione fece la propria vita, riuscendo a raggiungere le vette della comprensione del mondo proprio e ad imprimerla sulla pietra e nel colore.

Perdetevi dentro la Cappella Sansevero, così come nella città, e imparate le regole segrete dell’umano. Quando uscirete, forse, avrete conosciuto il labirintico gioco delle generazioni.

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